

Mi colpì subito il titolo “War Comes to the Cheyennes”. Mai lemma poteva essere più azzeccato. Siamo nelle grandi pianure tra il Colorado e il Nebraska dove un tempo mandrie infinite di bisonti tapezzavano di puntini neri la prateria; siamo nel territorio dei Cheyennes, degli Arapahos, dei Sioux (del Sud), dei Crow. Sono gli anni della prima corsa all’oro, tra il 1848 e il 1856; le pianure sono attraversate da carovane di coloni, avventurieri e vagabondi; la grande opera della ferrovia procede entusiasta e senza sosta; a Washington il Presidente Abramo Lincon e il Congresso vogliono un Paese moderno ed emancipato e pertanto vogliono abolire la schiavitù. In risposta gli Stati del Sud hanno dichiarato la secessione dando avvio ad una guerra fratricida che si concluderà con la vittoria degli Stati del Nord nel 1865.
Gli indiani Cheyenne, come i loro cugini Arapaho, benché fossero assediati da un nuovo mondo caotico, frenetico e litigioso, non avevano dubbi: loro volevano la pace. Black Kettle, capo Cheyenne, e Lean Bear, capo Arapaho, erano stati qualche tempo prima invitati a Washington per incontrare il “Grande Padre”, Abramo Lincon. (Perché i bianchi conquistatori presentarono il loro presidente con un nome simile è uno di quegli argomenti che meriterebbe una riflessione a parte. Credo potrebbe svelarci qualcosa del presente, ma in questo scritto voglio portare alla vostra riflessione ben altro.) Nella capitale i due indigeni erano stati ricevuti in pompa magna, erano state donate loro delle medaglie e una grande bandiera con trentaquattro stelline bianche, quanti erano gli Stati di allora. Il tutto era stato suggellato da forti quanto insincere (almeno da una parte) strette di mano. Fonti storiche raccontano che i due capi indiani tornarono dai loro popoli più che fiduciosi nel buon animo dei bianchi. Il colonnello Greenwood aveva spiegato loro che, finchè quella grande bandiera avesse sventolato sopra di loro, nessun militare o altro si sarebbe mai permesso di toccarli, erano al sicuro. Da allora, fino al fatidico 29 novembre 1864, giorno del massacro, la bandiera era stata ben visibile, issata su un lungo palo al centro del villaggio. Ma mentre a gran voce si proclamava ai quattro venti la pace nel segreto si ordiva la trama della guerra. Arrivarono i militari e con loro iniziarono le provocazioni per dei nonnulla, persino dei nonnulla immaginari; si moltiplicarono gli incidenti tra cui il più grave fu l’assassinio a sangue freddo di Lean Bear. Black Kettle, benché sconvolto dalla perdita insensata dell’amico, tenne fede alla promessa fatta; anzi si impegnò ancora di più per mantenere la pace. Con altri capi indiani riuscì ad incontrare il nuovo maggiore arrivato a Fort Lyon, Edward W. Wyonkoop; di quell’incontro, avvenuto nelle Smoky Montains, così scrisse il maggiore:
“I felt myself in the presence of superior beings; and these were the representatives of a race that I here to fore looked upon without exception as being cruel, treacherous, and bloodthirsty without feeling or affection for friend or kindred” Hoig, Stan. The Sand Creek Massacre. Norman, University of Oklahoma Press, 1961, pag. 99. Bury My Heart at Wounded Knee, pag. 77.
Nel mese di settembre del 1864 Wyonkoop scortò per quattrocento miglia una delegazione Indiana fino alla neonata città di Denver allo scopo di incontrare il governatore Evans e parlare con lui di pace. Il governatore già durante l’incontro preliminare con il maggiore si dimostrò scocciato, per non dire schifato, all’idea di parlare con degli indigeni e decisamente poco interessato alla pace; al contrario era molto preoccupato di non ledere la propria immagine agli occhi dei pezzi grossi di Washigton.
“But what shall I do with the Third Colorado Regiment if I make peace? They have been raised to kill Indians and they must kill Indians.” Bury My Heart at Wounded Knee, pag. 79.
Washington aveva dato il permesso a Evans di creare un corpo di miliziani volontari (faceva comodo a molti giovani coloni, che preferivano combattere mal equipaggiati Indiani piuttosto che andare al fronte) proprio a seguito di missive in cui raccontava una realtà esagerata e mistificata.
Evans condusse l’incontro in maniera subdola, confondendo e depistando gli astanti, tanto che i capi indiani lasciarono Denver senza aver capito se la loro richiesta di pace fosse stata accolta o meno. Una cosa però avevano ben recepito: per la loro sicurezza era un bene che comunicassero alle autorità del Forte quale fosse la posizione geografica del loro accampamento.
In quello stesso incontro Black Kettle e gli altri ebbero il “piacere” di conoscere il colonnello Chivington, colui che fu l’autore, e ideatore, della spietata operazione militare a Sand Creek. Così lo ricordano gli indiani: un enorme toro barbuto dagli occhi infuocati in cui balenavano lampi di pazzia.
Gli Indiani si accamparono a Sand Creek, a solo quaranta miglia da Fort Lyon; Wynkoop fu rimosso dall’incarico; al suo posto arrivò il maggiore Anthony, uomo dagli occhi inverosimilmente rossi e abile a fare il doppio gioco. Rassicurò Black Kettle che, essendo loro indiani pacifici, non avevano nulla da temere e che dunque partissero tranquilli i giovani maschi della tribù per le montagne a caccia di selvaggina per l’inverno. Quella stessa sera così il maggiore Anthony telegrafava a Denver:
“I shall try to keep the Indians quiet until such time as I receive reinforcements”
Bury My Heart at Wounded Knee, pag. 84 -86
Seicento uomini al comando del colonnello Chivington all’alba di una mattina d’autunno, era il 29 novembre del 1864, attaccarono un villaggio indiano pieno di donne, bambini e anziani compiendo uno dei massacri più efferati della storia americana. I racconti dei superstiti e di alcuni militari di Fort Lyon che furono da Chivington costretti a partecipare alla spedizione pena la corte marziale sono agghiaccianti. Riporto solo qualcuna delle immagini che emergono dai loro racconti, non per sensazionalismo ma al contrario per rispetto: perchè l’orrore quella mattina si abbattè furioso su inermi e innocenti esseri umani e va onorato alla loro memoria.
Un gruppo di ragazzine, che si era nascosto in un avvallamento del terreno, mandarono avanti una bimba di forse 6 anni; teneva un bastoncino in mano in cui avevano legato un fazzoletto bianco. Non avanzò che di pochi passi… Tutte le giovani squaw furono ammazzate. Nemmeno tentarono di fuggire da quella buca. Una giovane donna giaceva con il ventre aperto da cui si vedeva il suo bambino mai nato… Un neonato fu rapito e scaraventato in un dirupo, lo lasciarono lì a morire. Furono presi scalpi e mutilati i corpi, soprattutto delle parti genitali: erano considerati trofei da esibire in saloon e altri luoghi di mondanità.
Si racconta che i soldati erano molto su di giri a causa del whisky bevuto, ma può mai essere questa una giustificazione? In molte culture si ritiene l’alcool pericoloso proprio perché può condurre l’uomo a scatenare istinti bestiali. Ma nessuna bestia si comporta in una simile maniera né verso la propria specie né verso specie differenti. Inoltre come si può spiegare il momento antecedente alla sbronza in cui decido di assumere quella sostanza, e dunque posso prevedere che cosa accadrà? Che tipo di bestia dorma dentro l’uomo (o in alcuni uomini) per me rimane un mistero. Ma in verità non è questo il punto che mi ha maggiormente colpita di questa vicenda. Riguarda la figura del colonnello Chivigton. Innanzi tutto non era un militare qualsiasi, era stato ordinato pastore metodista e per alcuni anni aveva predicato nell’Illinois. Era stato sollevato dall’incarico, pensate un po’, per le sue posizioni dichiaratamente anti-schiaviste. la Chiesa metodista non era pro schiavitù ma trovava imbarazzante che si prendesse una posizione così esplicita sulla questione. Ordunque come posso io concepire un uomo che prega Dio e che si batte contro uno dei soprusi legalizzati più ignominiosi che gli uomini abbiano mai perpetrato su uomini come loro, la schiavitù, possa aver compiuto un massacro come quello di Sand Creek? Googolando quà e là si trovano parecchi siti, anche italiani, che si ostinano disperatamente a dipingere gli indiani dell’epoca come feroci e pericolosi per l’uomo bianco, ma su Sand Creek persino i più reazionari confermano l’aggressione a sangue freddo del villaggio indiano.
Anche le incredibili espressioni di Chivington sono provate: “nits make lice”, le lendini fanno pidocchi, che pronunciò durante un pubblico discorso a Denver, così come “kill and scalp all, little and big”, scalpateli tutti, grandi e piccini…
Siamo di fronte a un caso di schizofrenia pura? Di fanatismo parossistico? Di sadismo satanico? Non posso offrire risposte, nemmeno vaghe, ma solo riflessioni. Una prima considerazione, per me alquanto inquietante, è che gli uomini a volte sposino gli ideali senza comprenderli. Forse perché un mentore glieli ha presentati, o per appartenenza a un gruppo, o perché sono di moda, di convenienza o semplicemente gli sono capitati tra capo e collo. Si indossano ideali come fossero i vestiti buoni della domenica. Negli ultimi due anni purtroppo ho sentito ripetere frasi buoniste più e più volte; spesso mi sono chiesta se chi le pronunciava fosse consapevole del significato delle parole o le ripetesse a pappagallo… Mi chiedo come si sarebbe comportato Chivington di fronte ad indiani fatti schiavi in qualche piantagione del Sud? Li avrebbe liberati? E magari poi massacrati? Il fanatismo degli ideali è qualcosa di cui avere paura; è molto più diffuso di quanto ci immaginiamo. Si confonde nel comodo perbenismo, nel senso civico che ci impone di rispettare la legge sempre e comunque (esemplare è rimasta la candida difesa di Eichmann al processo di Gerusalemme: “sono un militare, ho eseguito gli ordini”); si mimetizza nel conformismo ed è perciò abile a scegliere le prime parole con cui stringerà un patto con la nostra coscienza, facilmente ci apparirà come la posizione più equilibrata e razionale (del resto se così fan tutti…). Ci fu un giorno in cui una folla gremita sotto un palco applaudì entusiasta Chivington; fors’anche lo ammirò per il piglio deciso e il fervore che mostrava. Avrà probabilmente riso di gusto alle spregevoli frasi che pronunciò, perché si sa che il gusto volgare è facile da risvegliare e un poco di goliardia non farà mica male (come quelle “innocenti” uscite di personaggi pubblici cui abbiamo assistito durante il corso dell’anno, ne ho una cartellina zeppa e ne cito una per tutte: “vi devono arrestare e buttare la chiave, assassini”).
Ma alla fine Chivington sul palco di Denver, come quelli seduti nel salotto in tv, appariva ai più un uomo dai giusti ideali che sempre invocava Dio. Oggi probabilmente nessuno vorrebbe avere un simile mostro tra i propri antenati… La Storia non lo ha risparmiato. Perché non fu punito dalla legge? Le autorità aprirono inchieste, biasimarono e condannarono l’operazione militare in sé, cercarono di correre ai ripari (almeno nelle apparenze) ma nessuna condanna ufficiale contro gli esecutori dell’eccidio fu mai emessa. Forse Chivington con la sua ferocia era stato una pedina di giochi più grossi? Possibile. Agli Indiani non è stata restituita che una infinitesima porzione del loro territorio, ma il tempo che è galantuomo li onora come un popolo saggio, forse quello che più di tutti comprese che cosa significa vivere in comunione con il Grande Spirito. E a noi moderni e post-moderni cittadini del mondo cosa può insegnare questa storia? A me parecchio.
“Our forefathers, when alive, lived all over this country; they did not know about doing wrong; … Although the troops have struck us, we throw it all behind and are glad to meet you in peace and friendship… Again, I take you by the hand, and I feel happy. These people that are with us are glad to think that we have peace once more, and can sleep soundly, and that we can live”.
Da uno stralcio del discorso pronunciato nel 1865 da Black Kettle … U.S. Secretary of the Interior. Report, 1865, pp 701-11 / Bury My Heart at Wounded Knee, pag. 101.
